Templari di San Bernardo
Congregazione laicale cattolico-cavalleresca di ispirazione templare
 
 
 
  Approfondimenti spirituali
 

Vanagloria, il tarlo dell'apparire

 

Una società come la nostra, afflitta dal male oscuro dell’acedia, della nausea del non-senso è paradossalmente malata anche del morbo opposto, la vanagloria, il tarlo che corrode il nostro rapporto con il fare, appiattendolo sull’apparire. Certo l’acedia scaccia la vanagloria e la vanagloria l’acedia, ma entrambi questi vizi saturano l’aria che respiriamo oggi. Già Evagrio considerava la vanagloria (kenodoxía) all’opposto dell’acedia: “L’acedia snerva il vigore dell’anima, ma la vanagloria rinvigorisce la mente, se è malata la risana, e rende il vecchio più robusto del giovane, purché siano presenti numerosi testimoni”. Così, se l’acedia è atonia, la vanagloria provoca una sorta di iper-tonia: in noi si risvegliano il vigore e la forza, e tutto in vista della lode, dell’applauso altrui. La vanagloria è davvero una tentazione sottilissima e assai difficile da discernere, un vizio multiforme che ci attacca da ogni parte, che “come l’edera, si abbarbica e sottrae la linfa che sorge insieme alle virtù, e non si allontana finché non ne abbia reciso la forza”. La vanagloria, malattia tipica di chi si crede virtuoso, malattia degli ipocriti, è in fondo una forma di prostituzione: tutto ciò che si fa, lo si fa per farsi vedere, per ostentazione, per “l’immagine”.

Ma qual è la natura profonda della vanagloria? Quali le ragioni del suo sorgere? Fondamentalmente, la vanagloria nasce dall’attribuire più importanza al fare che all’essere, dal far dipendere il senso della propria vita e la riuscita del proprio agire dal consenso e dall’applauso altrui. Si mette il proprio io al centro del mondo, come fa il bambino che esige l’attenzione su di sé di tutti gli sguardi… In tempi di sfrenato attivismo e di ricerca ossessiva di auto-affermazione, occorre lottare strenuamente contro questa tentazione, perché la posta in gioco è capitale: le persone vanno considerate per ciò che sono e non per ciò che fanno; ogni essere umano è un nome e un volto, non un participio o una macchina! Chi si lascia dominare dalla vanagloria misura se stesso solo in base a ciò che fa e mira ad affermarsi grazie al proprio agire “virtuoso”, ritenendolo non una possibilità di sviluppo della propria personalità o di esercizio dei propri doni per il bene di tutti, ma una via per imporsi sugli altri. Si crede che gli altri ci valutino per quello che facciamo, e dunque ci si comporta di conseguenza, finendo per imporre loro questa nostra visione delle cose: noi esigiamo il riconoscimento altrui, pretendiamo di essere stimati. E non si pensi che alla base di questo comportamento vi sia una volontà particolarmente perversa: a volte ciò che scatena l’ansia di emergere è semplicemente – soprattutto per le persone insicure – un goffo desiderio di essere riconosciuti e valutati.

La vanagloria si manifesta dunque attraverso una sorta di angoscia del fare: per essere apprezzati dagli altri, si giunge a compiacerli in ogni modo, anche a costo di compiere il lavoro dello schiavo, mascherando un enorme super-io sotto le spoglie della generosità. Si entra così in un vortice pericolosissimo: se gli altri non ci riconoscono ciò che a nostro parere dovrebbe esserci riconosciuto, essi divengono degli ingrati, dei nemici, persone contro cui fare guerra; e tutto questo mentre si perde qualsiasi fiducia in sé e così appare sempre più difficile ingaggiare la vera lotta, quella contro i fantasmi che abitano il proprio cuore. Ma chi è preda della vanagloria va incontro a un rischio ancor più pericoloso: cerca ossessivamente di essere applaudito e ammirato, e così facendo si prepara a una caduta abissale, nel giorno in cui il fare o l’aver fatto cessano di accompagnare la sua figura, il personaggio che si è abilmente costruito: e la caduta è tanto più pericolosa, quanto più egli ha compiuto un’inarrestabile ascesa…

E non si dimentichi che questo male è frequente nelle persone religiose che assumono quei tratti che i Vangeli stigmatizzano nei farisei e negli addetti alla religione. Costoro, identificandosi alla funzione rivestita, fanno prevalere il ruolo sulla loro realtà, diventano doppi predicando ciò che non credono possibile e non praticano: organizzano la loro azione per esibirsi e ogni giorno si sforzano di edificare la propria reputazione morale e di santità. A costoro Gesù ha annunciato che “prostitute e peccatori li precederanno nel regno dei cieli”.

Sì, la kenodoxía è tanto grave quanto sottile, perché è facile dissimularla dietro a parvenze di bontà, ascesi e santità; siamo abilissimi a trovare giustificazioni per celare la vanagloria proprio mentre la coltiviamo in noi con la massima cura. Il rischio estremo causato da questa passione consiste nell’assumere in permanenza una maschera, affinché gli altri non vedano le nostre debolezze e i nostri limiti. E così si finisce paradossalmente per far emergere in sé l’io autarchico, quello di chi sogna di poter venire a capo di sé senza dover dipendere dall’agire effettivo, quasi che la realtà e gli altri impedissero sistematicamente il fiorire del proprio immaginario talento nascosto.

Ben lo ha colto Robert Musil nel suo L’uomo senza qualità: “L’abitante di un paese ha almeno nove caratteri: carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio, e forse anche carattere privato; li riunisce tutti in sé, ma essi scompongono lui, ed egli non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli, che v’entran dentro e poi tornano a sgorgarne fuori per riempire assieme ad altri ruscelletti una conca nuova. Perciò ogni abitante della terra ha ancora un decimo carattere, e questo altro non è se non la fantasia passiva degli spazi non riempiti; esso permette all’uomo tutte le cose meno una: prendere sul serio ciò che fanno i suoi altri nove caratteri e ciò che accade di loro; vale a dire, con altre parole, che gli vieta precisamente ciò che lo potrebbe riempire”.

Il passo successivo consiste nell’assumere i modi dell’io minimo, talmente rinchiuso nel proprio angusto orizzonte da divenire incapace di una minima presa di coscienza della realtà che lo circonda, fino a cadere in giudizi e comportamenti grossolanamente ridicoli. La lotta contro questa dissoluzione nell’effimero richiede un esame di coscienza spietato e sincero, a partire da una domanda semplicissima: per chi e per che cosa si agisce? Per piacere agli uomini o per trovare la propria consistenza nell’essere in verità se stessi davanti agli altri e all’Altro? Solo per chi accetta di rispondere a tale domanda si potrà aprire quel cammino finalizzato ad accordare più importanza all’essere che al fare, nella rinnovata consapevolezza che solo un agire gratuito e trasparente può dare autenticamente senso alla vita.

Enzo Bianchi

Presso le nostre edizioni Qiqajon:

La Stampa, 6 gennaio 2008


 Scudetto della Congregazione T.S.B.

 

 
   

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